Una notizia “positiva”
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3 Giugno 2016Le fotografie sono rappresentazioni del tutto particolari e lo sono perché hanno una caratteristica unica tra i vari mezzi di produzione di immagini: le fotografie, per dirsi tali, presentano sempre un certo grado di trasparenza. Esse tendono a mettersi da parte e a darci, nell’immediatezza della visione, l’illusione di essere di fronte all’oggetto fotografato.
Se da un lato questa trasparenza ha fatto della fotografia lo strumento di elezione di chi ambisce a raccontare gli oggetti ed i fatti del mondo, dall’altro la consapevolezza che dietro la sua trasparenza si celi un’illusione ne incrina sul nascere quella che sembra essere la sua naturale vocazione. La trasparenza della fotografia ha creato e continua a creare problemi e suscitare differenti reazioni e modalità di approccio all’immagine fotografica.
Alcuni fotografi trovano che la fotografia sia troppo trasparente. Essi ritengono che a causa di questo suo sottrarsi all’osservazione per presentarci il fotografato non sia possibile veicolare tramite la fotografia significati che non siano quelli del soggetto stesso a meno che questa trasparenza non venga ridotta tramite artifici tecnici. Per veicolare significato producono quindi quelle immagini che chiamiamo pittoriche; immagini in cui vi è una forte (ma mai totale) riduzione della trasparenza. Questa riduzione della trasparenza spinge l’osservatore delle immagini a guardare come l’oggetto venga trasformato dal procedimento fotografico e a soffermarsi di conseguenza sulla particolare abilità del fotografo. Il significato delle fotografie risiederebbe quindi in questa proposta di visione alterata, ma, poiché questa alterazione della visione sembra richiedere particolari sforzi, nelle immagini di quel tipo vedeiamo troppo spesso solo la vanità di chi le produce.
Altri, forse anch’essi troppo convinti del dominio della trasparenza, ma al contempo insoddisfatti delle possibilità offerte dalle tecniche pittoriche, cercano di donare ulteriori significati all’immagine tramite richiami iconografici più o meno complessi e stratificati. Questi si comportano come se la comunicazione visiva avesse una struttura linguistica e tutti significati possibili siano di derivazione mnemonica e non anche (perlomeno) percettiva.
Altri ancora ambiscono a raccontare le cose del mondo, per essi la trasparenza è quindi un pregio ed il problema casomai sarebbe quella sensazione di illusorio che l’immagine fotografica non riesce a scrollarsi di dosso. Alcuni di essi cercano di oggettivare la loro visione fotografica con artifici retorici che non appartengono all’immagine, ma al loro particolare modo di agire. Costoro si muovono tra opposti apparenti, c’è chi cerca di “cogliere l’attimo”, ovvero di isolare quel fatto casuale che svelerebbe una verità più vera di quella accaduta un attimo prima e c’è chi cerca il vero scattando attimi casuali. Sembrano concetti opposti, ma si equivalgono nel ritenere necessario oggettivare l’immagine e nel credere di poterlo fare usando contenuti culturali che sono estranei all’immagine stessa e che, invece, appartengono alla narrazione dell’agire del fotografo.
Altri credono invece di poter oggettivare l’immagine tramite la tecnica. Questi ci propongono una versione esteticamente modernissima di idee ottocentesche: propongono una visione clinica di ciò che fotografano che trarrebbe forza dalla neutralità e superiorità dello strumento tecnico rispetto alla soggettività della visione umana.
Nella loro diversità estetica questi ultimi due approcci hanno un tratto comune: chi produce certe immagini ritiene che il significato dell’immagine risieda unicamente in ciò che viene fotografato. Tuttavia questa posizione non sembra giustificata poiché la fotografia non può essere usata nelle funzioni dell’oggetto fotografato, la sua dimensione è arbitraria, è bidimensionale, ha una superficie finita, è atemporale. Una fotografia pur rimandando ad un certo oggetto è comunque e sempre un altra cosa: non parliamo ad un ritratto, non guidiamo la fotografia di un automobile.
Queste tendenze che rappresentano molto dell’operare e del fruire fotografico possono derivare da un confronto non risolto con la trasparenza del mezzo, come se questa trasparenza fosse inevitabilmente troppa o troppo poca. Troppa per poter trascendere la banalità del reale o, viceversa, troppo poca per raccontarne l’eccezionalità. Gli uni devono ridurne la trasparenza, gli altri hanno bisogno di un supporto retorico o tecnico per apparire più aderenti al reale. Nessuno di loro convince appieno. Si ha la sensazione che non sfruttando questa imperfetta trasparenza si sia persa un’occasione perché in questa caratteristica vive la possibilità di creare un spazio della mente in cui le immagini non siano mai unicamente traccia di un altro oggetto, né una rielaborazione di tradizioni iconografiche, né il prodotto di uno speciale agire estraneo all’immagine, né visioni alterate che sono solo particolari effetti di superficie.
È possibile, anche se è una sfida difficile, percorrere altre vie. È possibile usare la fotografia per creare rappresentazioni cercando quel particolare equilibrio tra attrazione verso il fotografato e attrazione verso l’immagine in cui non ci debba necessariamente essere un vincitore. Creare cioè, superfici da guardare che traggano il loro significato trascendente dalla collaborazione tra oggetto fotografato e percezione della fotografia come oggetto in sé.
Andrea Calabresi